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Forcellone monobraccio o a due bracci? Qual è il migliore?

La scelta tra le due soluzioni tecniche spesso dipende dal tipo di utilizzo che verrà fatto dalla moto. Di certo il monobraccio è molto più bello ma…

Forcellone monobraccio o a due bracci? Una delle due soluzioni è superiore all’altra? E in base a quali ragionamenti i progettisti fanno la loro scelta?

È un dubbio che si trascina da molto tempo, perché se la scelta più logica appare quella convenzionale, cioè il forcellone a due bracci, ci sono esempi di monobraccio che risalgono a molto tempo addietro: già alla fine degli anni ‘40 aveva una sospensione del genere la tedesca Imme. Nacque nel 1949 e ne vennero costruiti soltanto un’ottantina di esemplari. Ma già nel 1947 la Moto Guzzi aveva avviato la progettazione del Galletto che impiegava una soluzione analoga; nel 1950 venne presentato al Salone di Milano e venne commercializzato l’anno successivo, per restare in produzione fino al 1966. La sospensione aveva la molla sotto il motore e veniva frenata nel movimento da dischi di attrito; una manopola permetteva di serrarli più o meno strettamente realizzando una regolazione del freno ante litteram. In questo caso la scelta era dettata da motivi di praticità: le strade di allora erano terribili, non sempre asfaltate, e forare uno pneumatico non era raro tant’è vero che il Galletto era dotato di ruota di scorta, fissata davanti allo scudo. Per sostituirla bastava svitare quattro viti, proprio grazie all’assenza del braccio sinistro del forcellone che avrebbe reso più macchinosa l’operazione.

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Il Galletto di Moto Guzzi è stato uno dei primi modelli a montare il forcellone monobraccio, essenzialmente per motivi pratici

Anche la Vespa col monobraccio

È la stessa filosofia che aveva guidato l’ingegner Corradino d’Ascanio nella progettazione della Vespa – e qui torniamo addirittura al 1946 –, nella quale il braccio oscillante era costituito dallo stesso motore che basculava insieme alla ruota, facilmente sostituibile per la mancanza del secondo braccio della sospensione.

Trascurando alcuni esperimenti artigianali, per l’applicazione “vera” del monobraccio alle motociclette bisogna arrivare fino al 1981, e al rivoluzionario progetto Elf. Il marchio di lubrificanti francese fece progettare una motocicletta fuori da tutti gli schemi all’ingegnere André De Cortanze, proveniente dalla Formula 1 automobilistica. Aveva il motore portante e due forcelloni monobraccio, uno al posto della forcella e l’altro al posteriore. La moto si chiamava Elf-E e corse nel Mondiale Endurance dal 1983 al 1986, spinta da un motore Honda e guidata da Didier De Radigues e Cristian le Liard. Anche in questo caso la scelta del monobraccio era dettata dalla necessità di sostituire le gomme perdendo poco tempo, nelle gare di lunga durata. Successivamente, dal 1984 al 1986, queste soluzioni venne vennero trasportate su una ciclistica costruita per il motore Honda 500 tre cilindri da Gran Premio, e successivamente per il motore Honda a quattro cilindri sempre da Gran Premio. Fu Ron Haslam a guidarla con buoni risultati nel Motomondiale. Venne conservata la scelta dei forcellone monobraccio ma in questo caso fu per onor di firma, perché non c’era nessuna gomma da sostituire durante la gara. 

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Ecco le ELF dotate di sospensioni monobraccio

Le difficoltà del monobraccio

In questo caso, cioè quando si ricerca la massima prestazione assoluta, il monobraccio non è la soluzione più conveniente: con un braccio solo le sollecitazioni provenienti dalla ruota non vengono distribuite simmetricamente e l’elemento oscillante è sottoposto anche a torsione, oltre che alla normale flessione. Questo significa la necessità di una progettazione più complessa per fronteggiare le differenti forze che agiscono sul braccio, e quindi più costosa. Perdipiù è necessario un dimensionamento più generoso, quindi nonostante la mancanza del secondo braccio c’è il rischio che l’elemento singolo risulti più pesante di un forcellone a due bracci. Va anche considerato che le sollecitazioni asimmetriche rischiano di usurare maggiormente i cuscinetti del fulcro.

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I successi del monobraccio

Questo non vuol dire che la sua soluzione monobraccio sia poco efficace: l’avevano la Honda RC 30 che vinse due mondiali Superbike con Fred Merkel ed è sempre con il forcellone monobraccio che la Ducati ha vinto 10 mondiali Superbike con i modelli 916, 996, 1098 e Panigale V4R. Le moto che corrono in Superbike però devono essere derivate dalla serie, e questo spiega la scelta. Tant’è vero che in MotoGP il monobraccio non lo usa nessuno e sull’ultima versione della Panigale V4 per ottenere un miglioramento si è tornati al forcellone a due bracci.

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Vincente e mitica, la RC30 di Honda col monobraccio

Resta un’ultima domanda: perché sia stata fatta questa scelta su moto che sono stradali, sì, ma Supersportive di alta gamma, o anche su altri veicoli come le Honda NT650 del 1988, oppure i modelli NR750 del 1992 e NSR250R della stessa Casa giapponese, o ancora le Ducati Multistrada V2 e Diavel, numerosi modelli Triumph e la serie delle Kawasaki H2 sovralimentate. La risposta è semplice: perché è più bello e dà alla moto un aspetto cattivissimo.

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Una delle Ducati più vincenti di sempre, la 916 (e serie successive) aveva il forcellone monobraccio

Anche BMW e Guzzi col cardano

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Merita una annotazione a parte il caso di molti modelli BMW e Moto Guzzi che pure hanno la sospensione posteriore a un solo braccio, ma in questo caso si tratta di un elemento che contiene al suo interno l’albero della trasmissione cardanica.

Quindi, in definitiva, il forcellone a due bracci è più leggero e meno costoso da produrre, rispetto a un monobraccio che offra le medesime prestazioni. Però quest’ultimo può offrire le stesse caratteristiche di guida ed è più bello da vedere. Come al solito, dipende da quello che si vuole ottenere.

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Da un punto di vista tecnico il bibraccio è vincente, per questo la Panigalr V4 2024ha abbandonato il monobraccio

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