Batacchio, la Ducati Supermono entrata nella leggenda prima della Hypermotard 698
Prima del Hypermotard 698 un’altra Ducati fece scalpore montato un raffinato motore mono derivato dal classico bicilindrico a L di Borgo Panigale. Ecco la storia vincente della Ducati Supermono
Con l’arrivo del monocilindrico montato sulla Hypermotard 698 Mono (qui la nostra prova) si apre un nuovo capitolo della storia Ducati, dopo decenni di bicilindrici prima, e di quattro cilindri poi. Avevano un solo cilindro le moto prodotte dalla Casa bolognese dagli esordi fino agli anni ‘70 ma questa configurazione era stata abbandonata per lo schema a ”L”: era diventato un marchio di fabbrica, salvo la sfortunata esperienza con i bicilindrici paralleli GTL, GTV e Sport Desmo.
Il batacchio è nel mito
C’è però un altro motore monocilindrico Ducati che è diventato leggendario, pur essendo stato prodotto in soli 67 esemplari. Così come il 698 deriva dal V2 della Panigale (cliccate qui per scoprire come è fatto il nuovo mono di Ducati), anche questo fu sviluppato partendo da un bicilindrico a L. ma procediamo con ordine. Venne progettato dall’ingegner Massimo Bordi e con una punta di ironia venne soprannominato ”Batacchio” per il suo geniale sistema di bilanciamento; apparve solo in versione ”corsa” nonostante fossero stati allestiti anche due prototipi stradali, e nella sua categoria vinse tutto quello che era possibile: in forma ufficiale gareggiò soltanto nel 1993 e con Mauro Lucchiari in una sola stagione conquistò i campionati Italiano ed Europeo Supermono Piloti e Costruttori; altri successi con moto private arrivarono dal pilota giornalista Alan Cathcart che fu primo nella gara Sound of Singles di Daytona, nell’Australian TT a Bathurst, nel Campionato Olandese Open Supermono, nel Campionato Britannico Supermono e due volte nel Campionato Giapponese Sound of Singles, mentre Robert Holden vinse il Tourist Trophy dell’isola di Man nel 1985.
Una moto “low cost”
Un bel palmarès per un motore nato in economia! L’intuizione era stata dell’ingegner Bordi, direttore tecnico e direttore generale del Gruppo Cagiva. In quegli anni stava prendendo piede la categoria Supermono e il papà della 851 quattro valvole venne affascinato dalla nuova sfida, sebbene si trattasse di una categoria minore.
“Pensai che si potesse ottenere un buon risultato con un investimento modesto – è la sua spiegazione – partecipando a un campionato forse marginale ma nel quale la componente passione era fortissima. Inoltre ero affascinato dall’idea di un monocilindrico con una potenza così alta e da una soluzione straordinaria e innovativa che dava le stesse caratteristiche di bilanciamento di un bicilindrico a 90°”.
L’idea geniale di Bordi
Il famoso ”batacchio”. Per contenere i costi venne sfruttato il più possibile il materiale già esistente: i carter del bicilindrico ”piccolo”, quello di 750 cm³ a due valvole, e una termica del bicilindrico di 851 cm³ quattro valvole, mantenendo lo stesso albero motore che peraltro era ben equilibrato.
“Le prime prove vennero fatte con un motore bicilindrico “a L” di serie al quale era stata lasciata attiva solo la termica inferiore, quello orizzontale – ricorda Gianluigi Mengoli, a quel tempo direttore dell’Ufficio Tecnico – , mentre il pistone di quella verticale venne lasciato senza segmenti per ridurre al massimo la resistenza. A quel punto ci si interrogò su come ripristinare l’equilibratura mantenendo un pistone solo”.
E qui Bordi tirò fuori il coniglio dal cilindro, quello del prestigiatore: per ottenere lo stesso bilanciamento la biella del cilindro superiore venne collegata a una seconda bielletta ancorata alla parte superiore del carter, che nel movimento simulava il peso del pistone. Un sistema successivamente ripreso sulle BMW 650 bicilindriche.
Cilindrata massima 550 cm³
Usando i carter del 750 però non c’era spazio per andare oltre 100 mm di alesaggio, e siccome la corsa era quella determinata dall’albero motore molto simile a quello del 750 di serie, ci si dovette limitare a una cilindrata di 550 cm³. In una categoria nella quale gareggiavano motori di cilindrata decisamente superiore.
“Però grazie a quel sistema di bilanciamento noi potevamo arrivare a un regime di rotazione superiore – è ancora Bordi – . Adottammo il massimo alesaggio possibile con la geometria del basamento piccolo: distanza tra albero motore e primario come nel basamento piccolo, il gruppo cambio era quello del motore piccolo, l’albero motore molto simile, le bielle erano quelle dell’851. La parte termica era prelevata dal quattro valvole da corsa: testa, cilindro e il pistone solo un po’ più grosso per via dell’alesaggio. Dunque riuscii a realizzare un motore che impiegava molti componenti comuni al resto della produzione, e di specifico aveva solo i due semicarter e il batacchio. In quel momento difficile per il Gruppo Cagiva, insieme a Franco Farnè e a Mengoli ho fatto quello che ho fatto con quattro gatti. Di Farnè si parla poco riguardo a questo progetto ma ebbe un ruolo importantissimo. Montammo i pezzi che già avevamo, rifacemmo la mappatura e la potenza venne fuori subito”.
Girava a 10.000 giri!
Il basamento del prototipo era un esemplare di serie nel quale al posto del cilindro superiore era stata saldata una scatola che chiudeva il sistema di equilibratura, successivamente vennero realizzati i carter definitivi fusi in terra. La pompa dell’acqua era sulla testata, comandata direttamente da uno dei due alberi a camme, soluzione più economica e meno ingombrante.
L’ingegner Bordi fece un salto quando il motore messo al banco dette una potenza sorprendente: una settantina di cavalli, che successivamente arrivarono addirittura a 75 CV a 10.000 giri/minuto. Valori elevatissimi per l’epoca.
Al telaio ci pensa Domenicali
Ma c’era da pensare anche al telaio e di questo venne incaricato un ingegnere da poco assunto: fu il primo incarico di Claudio Domenicali, all’inizio di una carriera che lo avrebbe portato all’attuale ruolo di amministratore delegato dell’azienda. Il giovanotto disegnò una struttura a traliccio ispirata a quella della 851 ma con la sospensione posteriore cantilever, senza leveraggi, più economica e più facile da gestire; il forcellone in alluminio era quello del modello F1. Domenicali proseguì anche come coordinatore del progetto portandone avanti lo sviluppo.
Il disegno della carrozzeria fu realizzato da Pierre Terblanche e pure questo risultò azzeccatissimo.
La produzione inizia nel 1993
Fra il 1993 e la metà del 1994 venne prodotta una prima serie di Ducati Supermono, nella punzonatura del telaio era indicata anche la cilindrata, 550 cm³; attorno al luglio 1995 iniziò la produzione della seconda serie e la punzonatura indicava 570, perché il motore era stato maggiorato per ottenere una potenza superiore.
“Nel ’92 venne fatto il primo esemplare che era il prototipo – ricorda Livio Lodi, curatore del museo storico della Casa di Borgo Panigale –, poi vennero prodotte 30 moto nel ’93, 10 nel ’94 e 25 nel ’95; a queste va aggiunto un prototipo del 1998 realizzato sulla base della 900 Supersport, che aveva un telaio completamente diverso da quello da corsa, ma non ebbe seguito”. In totale 67, Che per I collezionisti hanno un valore impressionante: qualche anno fa un esemplare è stato battuto all’asta per 160.000 euro.
Imbattibile in pista
La moto era bassa, leggera e semplicissima, apprezzatissima dai privati e imbattibile nella versione ufficiale che differiva soltanto per il forcellone rinforzato, lo scarico con la doppia uscita, l’ammortizzatore e i dischi freno in carbonio. Mauro Lucchiari fece man bassa nelle gare del 1993 ma alla fine di quell’anno lo sviluppo si interruppe; nel 1994 la Ducati factory venne affidata in gestione esterna a Paul Pellissier ma dopo un secondo e terzo posto nelle prime due gare di Campionato Europeo il valdostano passò si al Motomondiale 500 con la Paton; la Supermoto partecipò alla terza e ultima prova del campionato continentale al Mugello con Pierfrancesco Chili che vinse alla grande, e l’avventura si chiuse lì.
“Non conveniva schierare una squadra ufficiale nel campionato Supermono perché i privati vincevano da soli – spiega Bordi –, e visto come avevamo dominato le gare, l’interesse era calato. Fare di più di quello che già avevamo ottenuto non sarebbe servito”.
No alla versione stradale
Non valeva nemmeno la pena pensare a una versione stradale, sebbene qualche prova fosse stata fatta. Prima un muletto con la ciclistica della 851, e qualche anno dopo un nuovo prototipo, ai tempi della gestione Texas Pacific Group.
“La sperimentazione della versione stradale iniziò nel giugno 1991 ma ci fermarono quasi subito, attorno a gennaio del 1992 – svela l’ingegner Andrea Forni, allora responsabile sperimentazione veicolo delle moto che andavano in produzione – . Nel 1998 venne allestito anche un prototipo sulla base di una ciclistica della Supersport, ma non ebbe seguito. L’interesse per le Supermono fu un’illusione che si consumò molto in fretta, capimmo che il gioco non valeva la candela e di conseguenza interrompemmo lo sviluppo”.