Ammortizzatori posteriori: la rivoluzione del “mono”
È una storia che poggia su elementi di fisica e geometria, quella che ha portato il settore moto a evolvere dal più classico schema a doppio ammortizzatore fino ai “mono” più raffinati. Ripercorriamo insieme l’evoluzione degli ammortizzatori posteriori
Si tratta di un elemento la cui importanza è spesso sottovalutata, tuttavia l’ammortizzatore posteriore è determinante per la qualità di guida e non di meno per il comfort. La soluzione tecnica comunemente più adottata - quella del monoammortizzatore vincolato centralmente a forcellone e telaio - lo nasconde tra motore e altre componenti più in vista, rendendolo ingiustamente un attore di serie B del comparto ciclistico. Cerchiamo dunque di portare un po’ di chiarezza, partendo dalla sua introduzione, passando per le varie tipologie disponibili e infine arrivando a descriverne il funzionamento.
Gli antenati dell’ammortizzatore posteriore
Agli albori dell’epopea motociclistica, l’unico elemento “ammortizzante” a riguardare il retrotreno erano le molle di cui era composta la sella, al semplice scopo di assicurare un minimo di comfort al pilota. Salvo sparuti casi, la dinamica del retrotreno non venne gran ché considerata fino agli anni 30, quando Moto Guzzi introdusse la cosiddetta “ruota guidata”. Un sistema semplice e applicabile agli esistenti telai rigidi, sulle cui estremità posteriori erano fissati due canali verticali contenenti un sistema di molla e contro-molla, all’interno del quale poteva scorrere il supporto del perno ruota. Con il sistema a ruota guidata però la tensione della catena aumenta a mano a mano che ci si avvicina agli estremi della corsa della sospensione. Si tratta di variazioni considerevoli, che costituirebbero un problema se le escursioni molleggianti fossero elevate, e quindi per forza di cose con questo sistema l’escursione è limitata. Meglio di un telaio rigido, ma si poteva fare di meglio.
Ecco un classico sistema a ruota guidata, gli astucci che si vedono vicino alla ruota posteriore contangono la molla
L’adozione, quasi contemporanea, di bracci oscillanti (il ben noto “forcellone”) s’è via via fatta strada con il concepimento di telai appositamente sviluppati per questa formula, con un maggior potenziale di sviluppo. Furono innumerevoli gli esperimenti tentati nei tre decenni successivi dai costruttori… e tuttavia fu lo schema forcellone/doppio-ammortizzatore ad essere prevalentemente impiegato, in quanto efficace e di semplice realizzazione. Anche in questo caso si poteva migliorae, e o primi tentativi d’introduzione di un singolo elemento ammortizzante, posto centralmente, vennero abbozzati nello stesso periodo da produttori come la milanese Sertum e la tedesca NSU, ma senza memorabili risultati. Servirà attendere fino agli anni 70 per assistere alla “primavera” dello schema forcellone/monoammortizzatore.
Lo schema a doppio ammortizzatore con forcellone è ancora oggi abbastanza diffuso
I vantaggi del monoammortizzatore
Sembra una formula conclamata: l’evoluzione delle sospensioni nasce in seno al fuoristrada.
È questo il caso della Yamaha YZM250 del 1973 dotata di sistema “Monocross”, un’idea concretizzata dal produttore giapponese, ma nata in Europa, per mano (e soprattutto per testa) dell’ingegnere belga Lucien Tilkens… il quale bussò prima, senza esito, alle porte di CZ e Suzuki. Galeotti furono questi due rifiuti, tanto che ci pensò la Casa di Iwata ad evolvere il progetto e trovare gran fortuna. La soluzione proposta da Tilkens e adottata sulla YZM250 prevedeva un forcellone con capriata superiore, alla quale era infulcrato un singolo ammortizzatore che - passando sotto al tubo centrale del telaio e sotto al serbatoio - veniva ancorato dietro al cannotto di sterzo. Questo sistema aveva il vantaggio, rispetto al doppio ammortizzatore fissato ai rispettivi lati, di garantire una maggiore escursione della ruota senza dover adottare ammortizzatori particolarmente lunghi o eccessivamente inclinati (per “recuperare” escursione ruote attraverso un angolo maggiore). Entrambe soluzioni approssimative e limitanti, oltre che soggette a flessioni eccessive.
Ecco lo schema Mono Cross introdotto da Yamaha sulla YZM250
Cantilever o Multilink
L’arrivo di uno schema “mono” finalmente efficace, ha spianato la via alle successive evoluzioni, che hanno riguardato soprattutto il modo in cui l’unità ammortizzante veniva “imperniata” tra elemento oscillante (forcellone) ed elemento rigido (telaio). Inizialmente il sistema più diffuso fu il cantilever, ovvero un “semplice” ancoraggi su punti fissi, che ha presto trovato valide alternative nell’introduzione di leveraggi - altrimenti detti “link” - utili a creare un’articolazione nel sistema di sospensione che rende la forza generata dal movimento del gruppo ruota meno lineare/diretta.
Ecco uno schema a leveraggio progressivo
Ciò significa che questa non aumenta in modo proporzionale, ma segue una “curva di progressione” che permette di mantenere un movimento più libero e scorrevole nelle prime fasi e - mano a mano - più rigido all’aumentare dell’escursione. Un risultato ottenuto poi, in seguito a studi e rilevamenti, anche senza ricorrere a un sistema di biellette, ma lavorando su un’accentuata inclinazione del solo ammortizzatore: risultato impensabile da raggiungere con un antiquato schema a doppio ammortizzatore.
Idraulica e meccanica: il funzionamento
Se vi state chiedendo perché spiegare il funzionamento dell’ammortizzatore posteriore solo da ultimo. Allora è presto detto: il principio di base di un ammortizzatore, sia esso singolo o concepito per lavorare in coppia con un secondo elemento, così come per analogia il funzionamento di una forcella, sono di fatto piuttosto semplici. Perlomeno finché si tratta l’argomento a grandi linee, resti inteso.
Gli elementi principali sono quindi due:
Componente elastica - ossia la molla, necessaria per sostenere il peso di moto e pilota e per assorbire gli urti
Componente idraulica - ossia l’insieme di pompante, valvole e in genere elementi meccanici che attraverso la resistenza indotta dal movimento forzato del fluido (l’olio contenuto all’interno) rendono “gestibili” le fasi di compressione ed estensione. Questo insieme, a sua volta, può essere inoltre coadiuvato da un “serbatoio” (esterno o integrato) contenente gas, allo scopo di compensare le variazioni di volume interno del fluido.
Questa gestione, cui s’è appena accennato, altro non è che la possibilità di limitare il movimento altrimenti incontrollato della sola molla, agendo di fino - almeno in quegli ammortizzatori che lo permettono - attraverso appositi registri. Per questo però, vi rimandiamo al nostro approfondimento dedicato: come funzionano le regolazioni.