MV Agusta F4 story - Il motore: dalla Ferrari a Cagiva Corse
Nel 1997 fa debuttava la F4, segnando la rinascita di MV e una svolta per tutta la categoria delle maxi sportive. Le genesi del progetto fu, come per tutti i capolavori, piuttosto travagliata. Ripercorriamola cominciando da quella del motore 4 cilindri che passò sotto diverse mani... e marchi
Il 15 settembre 1997, quasi 27 anni fa, alla esclusiva Società del Giardino di Milano il patron del gruppo Cagiva Claudio Castiglioni presentava la MV Agusta F4: la moto che segnava la rinascita della leggendaria casa italiana, destinata a diventare a sua volta una pietra miliare per il settore delle maxi sportive. A fianco di Castiglioni (nella foto qui sopra) un emozionato Giacomo Agostini, convinto testimonial di questa impresa (dopo una lunga militanza sotto i "colori" di Yamaha).
Vale la pena di ripercorrere questa storia che ci parla di genio, passione e della capacità tipicamente italiana di trovare soluzioni quando sembrano non essercene più. Tutto parte dal travagliato progetto di un nuovo motore 4 cilindri: ripercorriamo questa intricata vicenda con il nostro Dario Ballardini, che nella sua lunga carriera ha conosciuto e parlato con tutti i protagonisti della storia.
Perché F4?
Molti si sono chiesti perché alla MV Agusta F4 sia stato dato quel nome. E invece lì, sotto gli occhi di tutti, c’è sempre stato il segreto delle sue origini: “F” come Ferrari e ”4” come quattro cilindri. Se guardate bene, i caratteri con cui è scritto sono gli stessi della Testarossa degli anni 80-90. Il vulcanico Claudio Castiglioni, presidente dell’allora Gruppo Cagiva, voleva fare una moto dal prestigio eccezionale con il marchio MV Agusta che aveva comprato e un motore commissionato alla Ferrari Engineering.
Da Maranello a Bologna
HPE Ferrari lo progettò in collaborazione con Ducati, prendendo come riferimento un quattro cilindri Yamaha 750 a cinque valvole. Venne però scelta la soluzione a quattro valvole radiali come si usava in Formula 1 per avere un tocco di esclusività che serviva a dare prestigio.
A Modena del prototipo vennero realizzati due esemplari che vennero consegnati in Ducati. Ma quel motore aveva il difetto di essere nato fuori dall’azienda: non era un Ducati ”vero” e per giunta aveva quattro cilindri, non due. Franco Farnè, capo del reparto esperienze, lo vedeva come il fumo negli occhi e per due anni lo lasciò sotto un bancone.
Con Negroni il progetto si sblocca
A sbloccare la situazione furono l’acquisizione della Moto Morini e il conseguente arrivo di Luciano Negroni, Responsabile Sviluppo Prototipi dell’azienda di via Bergami. A lui (che non era un ducatista viscerale) venne affidato lo sviluppo del quattro cilindri, da portare avanti in stretto contatto con la Ferrari. Ma i metodi di lavoro del settore auto e di quello moto sono diversissimi: da Modena imposero routine lunghissime al banco prova, volevano essere informati di qualunque quisquilia ed erano molto lenti nel dare le risposte.
All'inizio i CV erano meno di 20!
Castiglioni voleva essere sempre informato sugli sviluppi e un bel giorno il buon Negroni sbottò: “Così non si può lavorare. In una settimana mi hanno fatto fare mezzo ciclo a 5000 giri e mezzo ciclo a 6000”. L’obiettivo era arrivare a 14.000 ma bisognava accelerare e il tecnico ebbe il permesso di bypassare Modena. Mise il motore al banco, fece un lancio a pieno regime e rimase di sasso: 19,8 CV a 9000 giri.
Vennero quelli della Ferrari, analizzarono la sala prove, fecero il test a loro volta… e lessero la stessa potenza.
“Ragioniamo sul da farsi e poi ti chiamiamo”.
Due giorni dopo non si erano ancora sentiti ma si fece sentire Castiglioni: “Vai avanti come ti pare, mi sono stufato”.
Con l’aiuto dell’Ingegner Zacchè, mago dei calcoli, in tre giorni Negroni rifece gli alberi a camme, modificò il diagramma delle alzate e vide presto 120 cavalli quando la Ducati 851 arrivava a 125.
Stavano preparando le bicilindriche percorrere a Daytona e in quattro o cinque mesi di lavoro arrivarono a 136 CV. Ma nello stesso tempo la quattro cilindri arrivò a 135,5.
Bordi blocca tutto
Tutto procedeva bene fino a quando non arrivò la telefonata dell’ing. Massimo bordi, Direttore Generale: “Fermate lo sviluppo del quattro cilindri!. Domani mattina, quando arrivo in azienda, deve essere già stato tolto dal banco prova”.
Castiglioni, che telefonava tutte le mattine, andò su tutte le furie. E Negroni stava tra l’incudine e il martello, da una parte spinto dal Presidente e proprietario dell’azienda e dall’altra tirato dal Direttore Generale e suo diretto superiore che aveva risposto ”Basta, quel motore non deve più andare. Con Castiglioni ci penso io”. Andiamo bene…
In attesa che i due si chiarissero lo sviluppo andò avanti lo stesso ma era in arrivo una nuova sorpresa da parte di Bordi: il quattro cilindri doveva diventare un 860 cm³ e le testate andavano girate di 180°, con gli scarichi all’indietro e l’aspirazione davanti.
Soluzioni esclusive
Significava una bella rivoluzione e Negroni rimase sconcertato. Ma l’Ing. Bordi sapeva quello che faceva.
”Castiglioni voleva qualcosa di esclusivo, ma quel motore era poco più della scopiazzatura di un quattro cilindri Yamaha – spiega oggi –, aveva l’esclusiva delle valvole radiali ma la gente lo percepiva poco e invece la potenza non era granché. Per questo feci aumentare la cilindrata. E feci girare le testate perché con i corpi farfallati in quella posizione avremmo avuto un maggiore afflusso di aria fresca all’aspirazione”.
Ci vollero due settimane di lavoro. Nel frattempo Negroni e i suoi collaboratori portavano avanti sottobanco anche lo sviluppo del 750 cm³. Lo avevano montato sul telaio di una Cagiva 500 da Gran Premio modificato allo scopo e dotato di fanali per poter circolare su strada. Negroni spesso usava il prototipo nel quotidiano percorso casa-lavoro per accorciare i tempi di collaudo: ma qualcuno lo vide, più di un giornalista gli fece la posta e le fotografie finirono su alcuni giornali. Era il 1993.
Domenicali disegna il telaio
Nel frattempo veniva sviluppato anche il motore 860 e il giovane ingegnere Claudio Domenicali (proprio lui, quello che oggi è amministratore delegato a Borgo Panigale) venne incaricato di disegnare il telaio. Ne viene fuori una cosa molto particolare, con soluzioni originali e un’estetica strana.
"Lo chiamavamo "pesce martello" per la curiosa forma del cannotto che finiva al centro di una traversa con funzione di air box – ricorda Negroni –. Era a doppio trave ma i due elementi non erano dritti, avevano una forma a ”S”. Da San Marino erano appena arrivati i prototipi della 916 e lo mettemmo dentro una di quelle carene. Cominciammo subito a farlo girare e ad effettuare le prove di durata. A pari ciclo reggeva il doppio delle ore del bicilindrico di allora, cosa che fece andare in bestia l’ingegner Bordi”.
Ma c’erano ancora problemi con la trasmissione dell’alternatore. L’ufficio tecnico venne incaricato di modificarla e ne venne fuori qualcosa di poco elegante: una trasmissione esterna che finiva sulla ruota dentata della frizione. Funzionava bene, ma il carter esterno era bruttissimo: per la sua forma il motore venne chiamato ”a chitarra”.
Castiglioni telefonava tutte le mattine e quando glielo raccontarono, venne a vedere davvero. Non fece giri di parole: “Cos’è ‘sta roba? Basta! Da oggi motore, moto e tutto il progetto... su in Cagiva!».
Tutto a Tamburini
In realtà non era una reazione a caldo. Castiglioni ne aveva già parlato con Massimo Tamburini, genio del design: quello era il primo passo verso la costruzione della F4, quella che sarebbe stata “la moto più bella del mondo”. Ma non con quel motore.
Il progetto venne affidato alla Cagiva Corse, non al settore produzione, e l’ingegner Andrea Goggi ebbe l’incarico di ribaltare il quattro cilindri da cima a fondo. Ascoltò i consigli e le osservazioni di Negroni e poi rifece tutto, tenendo quello che c’era di positivo: l’imbiellaggio, i pistoni e le teste con le valvole inclinate.
Questo però è già la seconda fase della nascita della MV Agusta F4: restate collegati, avremo modo di parlarne ancora parecchio!