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Moto Morini 500 Turbo, la storia sconosciuta di un modello mai nato

La 500 Turbo fu presentata a EICMA nel 1981 dove riscosse un grande successo tra il pubblico. Purtroppo non arrivò mai dai concessionari. Questa è la sua storia

La Moto Morini 500 Turbo è un prototipo che incarna lo spirito pionieristico di un’epoca, testimoniando al contempo l’abilità tecnica di una casa che, nonostante le dimensioni ridotte, ha sempre saputo distinguersi per originalità e innovazione. 

Moto Morini 500  Turbo: il futuro negato

Presentata al Salone di Milano del 1981, la Morini 500 Turbo è un progetto delineatosi sotto la direzione dell’ingegnere Franco Lambertini, già padre della 3 1/2 e del suo motore bicilindrico che divenne il marchio di fabbrica della casa. La base della 500 Turbo era proprio il collaudato bicilindrico  V di 72° in versione 500 (478 cm³), opportunamente modificato per ospitare un turbocompressore IHI: scelta audace che inseguiva i prodotti sviluppati negli stessi anni da rivali del calibro di Honda, Suzuki e Yamaha. Nonostante il potenziale, la 500 Turbo non raggiunse mai la produzione in serie. Le ragioni sono molteplici: i costi di sviluppo erano elevati, ed il mercato dell’epoca, scontato dagli insuccessi delle rivali giapponesi, poneva seri dubbi sul possibile successo di una moto turbo, considerata complessa e difficile da gestire. 

Il motore turbo

Il prototipo della 500 Turbo era dotato del motore Morini a V di 478 cm³, derivato dalla Moto Morini 500, ma modificato per l’adozione di un turbocompressore. La sovralimentazione, gestita da un sistema turbo IHI a geometria fissa, permetteva al motore di sviluppare una potenza massima stimata di 70 CV a 8.500 giri/min, con un rapporto di compressione ridotto a 7,5:1 per meglio gestire le pressioni del turbo e preservarne l’affidabilità. La velocità massima era di circa 200 km/h. A dirla tutta, furono progettati anche motori da ben 85 CV alla ruota, da cui sarebbero però sicuramente emersi problemi al cambio difficilmente risolvibili. Quelli che invece non diedero mai problemi furono il banco e l’imbiellaggio. Il raffreddamento del motore era garantito invece da un impianto ad aria forzata, reso più efficiente da condotti e prese d’aria specifiche posizionate sulla carenatura, mentre l’alimentazione era affidata a un sistema di carburatori appositamente modificati per lavorare con la sovralimentazione. Infine lo scarico, che includeva un collettore progettato per ottimizzare il flusso dei gas e ridurre al minimo il turbo lag, cioè il ritardo che si verifica tra il momento in cui il pilota accelera e l'effettiva risposta del motore turbo, ovvero il momento in cui il turbocompressore inizia a fornire la potenza aggiuntiva. 

Le turbine IHI “sbagliate”

Nonostante le perplessità di Lambertini, contrario a cercare fornitori in Giappone, per le turbine Moto Morini si rivolse alla IHI. Una scelta che, in prima battuta, non si rivelò azzeccata a causa del ritardo della risposta e ai regimi transitori. Lambertini chiese quindi alla IHI di fornirne di nuove turbine secondo le sue modifiche, nelle quali però inserì volutamente inseriti due errori, assai facili da correggere. Naturalmente, l’azienda nipponica consegnò le turbine così come erano state richieste, in Morini si corresse l’errore e furono montate senza alcun problema. La grande soddisfazione fu però che Honda, già uscita sul mercato con la CX Turbo, montava le stesse identiche turbine con gli errori inseriti da Lambertini. Cosa che obbligò il marchio nipponico ad organizzare una gigantesca campagna di richiamo, in Morini ci fu una certa soddisfazione.

Il carburatore della Topolino

Altra “peculiarità” della 500 Turbo erano i carburatori. La mancanza di una gestione elettronica del motore (all'epoca agli albori nel mondo delle moto) costrinse infatti Lambertini ad inventarsi alcune soluzioni meccaniche ma dal funzionamento impeccabile. Come l’overboost, la valvola di aumento temporaneo della sovralimentazione ed altri meccanismi per migliorare la regolarità e l’alimentazione Quest’ultima era curata da un carburatore Dell’Orto aspirato a monte della turbina e non “soffiato”, come all’epoca qualche Casa aveva tentato di fare nel settore automobilistico. Dopo alcuni esperimenti con il PHF a valvola tonda si preferì un altro Dell’Orto: “Avevamo trovato uno strano carburatore a farfalla da 36 mm - ricorda il tecnico Luciano Negroni impegnato all'epoca nello sviluppo del prototipo  - per applicazioni marine. Era quasi senza vaschetta e credo derivasse dai vecchi carburatori della Fiat Topolino. Però andava benissimo!”. Il carburatore era unico per i due cilindri e lo schema di alimentazione proseguiva con la turbina, una strana iniezione pneumatica secondaria gestita elettronicamente ideata da Lambertini, l’intercooler e, infine, una valvola rotativa, altra trovata dell’ingegnere per sopperire ai ritardi tipici del motore sovralimentato. 

La ciclistica

La ciclistica si basava su un telaio a doppia culla chiusa in acciaio al cromo-molibdeno pensato per garantire una combinazione di rigidità e leggerezza. Le sospensioni erano firmate Marzocchi: una forcella telescopica anteriore e un forcellone posteriore con doppio ammortizzatore regolabile, mentre l’impianto frenante, firmato Brembo, comprendeva un doppio disco anteriore da 260 mm e un disco posteriore da 240 mm. Il tutto per un peso sulla bilancia che non superava i 170 kg. Eccezionale per una moto di quella cubatura. 

Il design

Altrettanto innovativo il design. Dal punto di vista estetico, la 500 Turbo presentava una carenatura integrale che non solo migliorava l’aerodinamica, ma conferiva alla moto un aspetto da molti definito “futuristico”. Il design (parliamo comunque di un prototipo) si distingueva per linee tese e moderne disegnate niente meno che da Giuseppe Ricciuti, poi diventato designer all’Aprilia, nonché per le prese d’aria e condotti necessari ad ottimizzare il raffreddamento ad aria del motore. Nonostante la posizione sportiva, l’ergonomia della moto garantiva un buon livello di comfort al pilota, cosa che, unitamente alla generosa capacità del serbatoio (circa 18 litri, ma beveva parecchio) ben si sposava con l’idea di una moto adatta all’uso sportivo tanto quanto a quello turistico. 

Il fallimento e l’eredità del prototipo

Nonostante lo scalpore con cui fu accolto al Salone di Milano, il progetto venne abbandonato, rimasto intero e funzionante, il prototipo finì in Ducati (nel 1987 Morini fu ceduta ai fratelli Castiglioni, titolari del gruppo Cagiva e già proprietari del marchio di Borgo Panigale) che a sua volta lo affidò alla casa d’aste inglese Sotheby’s. Oggi è conservato dal collezionista Mario Righini, in un museo all’interno del Castello di Panzano a Castelfranco Emilia, in provincia di Modena. 

Una scelta obbligata: vinse la Kanguro 350

Al di là delle difficoltà tecniche e di gestione sopra ricordate, alla base dell’accantonamento del progetto fu però la scelta che Moto Morini si trovò costretta a fare con un altro modello. Morini era una piccola casa, con poche risorse e che per questo poteva industrializzare solo pochi nuovi modelli. La scelta, fortunata visto il successo che ebbe, fu per la Kanguro 350, endurona che ebbe un grande successo e contribuì a tenere a galla l’azienda per molti anni. 


 

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