MotoGP Indianapolis 2013: lo Speedway, un circuito più da 500 miglia che da moto
Con buona probabilità, le MotoGP correranno per l'ultima volta nella Racing Capital of the World, la Capitale Mondiale delle Corse. Più prosaicamente, sul circuito di Indianapolis. Non l'ovale, ovviamente, quanto quello della Formula 1. Indy, una sorta di religione per le quattro ruote (scoperte) made in USA, sembra imprigionata nel mito delle 500 miglia: più che Saturno che mangia i propri figli, un mito che non sopporta figliastri. Il contratto con la Dorna, che gestisce la MotoGP, è valido fino al 2014. Ma molto dipende dall'afflusso del pubblico di quest'anno...
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MotoGP
Quasi il più vecchio
Dopo quello di Brooksland, inaugurato in Inghilterra nel 1907, è l'impianto permanente più antico al mondo: considerato che dalla parte più antica dell'Oceano, Brooksland è in disuso dal 1939, l'Indianapolis Motor Speedway può essere considerato senza iperbole alcuna il monumento al motorismo per antonomasia. Dici Indianapolis (anzi, Indy) e pensi subito alla 500 Miglia: impossibile non farlo, visto che sono state solo le Guerre Mondiali a interrompere un vero e proprio rito che va in scena sul finire di maggio a partire dal 1911. Un rito che quest'anno, per la vittoria del veterano Tony Kanaan, ha portato sulle tribune 400.000 spettatori e che è più di una gara di auto. È una litania che dura tutto l'anno, dalle sessioni di qualificazione per i debuttanti alla gara in sé, passando per l'attesa che si protrae per settimane. Per una pole position da conquistare sul filo dei 360-370 km/h (anzi, meglio dire in miglia...), Pole Day, Bump Day: termini spesso sconosciuti anche all'appassionato di Formula 1, che poco hanno a che vedere con tutte le altre competizioni motoristiche. Dove il “tutte” significa “tutto ciò che non sia Indy 500”. A maggior ragione, se i mezzi presentano due ruote anziché quattro. E se si ignora quanto sia bello brindare a latte anziché a champagne.
Mito sdoganato. Poco e male
L'Indianapolis Motor Speedway può apparire brutale nella sua semplicità: quattro rettilinei, due lunghi e due corti, quattro curve. Un ovale, come oltreoceano se ne trovano a iosa. Peccato che, per essere vincenti, quelle curve bisogna conoscerle millimetro per millimetro. E avere un mix di tattica e abilità di guida che non si può tradurre con il semplice andare a tavoletta. Le auto che vi corrono, di fatto, sono le uniche a poterlo fare sull'ovale sfruttandone al massimo le potenzialità: questione di pneumatici, di aerodinamica, di assetto. Le monoposto (oggi della IRL, la Indianapolis Racing League) vi hanno corso nel 2013 per la 97° volta; le stock tentano di intaccare la popolarità della Daytona 500 disputando a Indianapolis la Brickyard 400 dal 1994. Ci riescono con la naturalezza di un'attempata casalinga che, acquistata una parrucca da vamp per corrispondenza, ammicca allo specchio sentendosi Marilyn Monroe.
Stars and stripes only
Se sdoganare il mito di una pista unica, legata a filo doppio a un evento che più a stelle e strisce non si può, risulta problematico per una categoria – le stock car – la cui popolarità negli Stati Uniti è sempre stata elevatissima, figuriamoci per qualcosa di alieno come la Formula 1 o la MotoGP. La prima è transitata su una pista che, con l'originale, ha in comune la sola curva 1 e parte del rettilineo finale che parte dalla curva 4: si gira in senso antiorario, lo si è fatto dal 2000 al 2007 senza un particolare entusiasmo da parte del pubblico. E, anzi, con uno spettacolo ai limiti della farsa, quando nel 2005 si presentarono al via le sole monoposto gommate Bridgestone: sei in tutto, arrivate al traguardo sotto bordate di fischi. Le altre, gommate Michelin, non parteciparono dopo un terrificante botto di Schumacher jr. nella curva 1 a causa di uno stallonamento dello pneumatico posteriore. Gli americani non si esaltano facilmente di fronte a sport europei, è cosa nota, e – di fronte a spettacoli non all'altezza – non esitano a fischiare. Fino a fare calare il sipario.
MotoGP, bella ma...
Le MotoGP sono approdate, con una certa diffidenza, a Indianapolis nel 2008. Il battesimo è stato di quelli bagnati, anzi ventosi: fu l'Uragano Ike a consegnare a Valentino Rossi una vittoria con gara interrotta, mentre 250 e 125 non scesero in pista per le condizioni climatiche sfavorevoli. Da allora, gare svolte regolarmente (ma sul tracciato della Formula 1...), risposta del pubblico tiepida – 170.000 biglietti staccati in tre giorni nel 2008 il record: tanti in assoluto, pochi per un impianto che ne contiene più del doppio in una singola seduta – e nel 2012 il sorpasso in termini di spettatori da parte di Laguna Seca, che rispetto a Indianapolis è una struttura mignon (137.000 contro 134.000 in tre giorni). Se nel 2013 i risultati dovessero mantenersi su questa falsariga, ci sarebbe da pensare a un classico grazie e arrivederci. A un amore non sbocciato, e sarebbe stato strano se fosse successo, tra pubblico e MotoGP. Mettiamola così: gli eroi del Motomondiale, tutto sommato, potrebbero stare meglio – ed essere meglio celebrati – altrove. Perché considerare Indy come una pista qualsiasi equivale a entrare a Notre Dame e scambiarla per una chiesetta di paese.
Dopo quello di Brooksland, inaugurato in Inghilterra nel 1907, è l'impianto permanente più antico al mondo: considerato che dalla parte più antica dell'Oceano, Brooksland è in disuso dal 1939, l'Indianapolis Motor Speedway può essere considerato senza iperbole alcuna il monumento al motorismo per antonomasia. Dici Indianapolis (anzi, Indy) e pensi subito alla 500 Miglia: impossibile non farlo, visto che sono state solo le Guerre Mondiali a interrompere un vero e proprio rito che va in scena sul finire di maggio a partire dal 1911. Un rito che quest'anno, per la vittoria del veterano Tony Kanaan, ha portato sulle tribune 400.000 spettatori e che è più di una gara di auto. È una litania che dura tutto l'anno, dalle sessioni di qualificazione per i debuttanti alla gara in sé, passando per l'attesa che si protrae per settimane. Per una pole position da conquistare sul filo dei 360-370 km/h (anzi, meglio dire in miglia...), Pole Day, Bump Day: termini spesso sconosciuti anche all'appassionato di Formula 1, che poco hanno a che vedere con tutte le altre competizioni motoristiche. Dove il “tutte” significa “tutto ciò che non sia Indy 500”. A maggior ragione, se i mezzi presentano due ruote anziché quattro. E se si ignora quanto sia bello brindare a latte anziché a champagne.
Mito sdoganato. Poco e male
L'Indianapolis Motor Speedway può apparire brutale nella sua semplicità: quattro rettilinei, due lunghi e due corti, quattro curve. Un ovale, come oltreoceano se ne trovano a iosa. Peccato che, per essere vincenti, quelle curve bisogna conoscerle millimetro per millimetro. E avere un mix di tattica e abilità di guida che non si può tradurre con il semplice andare a tavoletta. Le auto che vi corrono, di fatto, sono le uniche a poterlo fare sull'ovale sfruttandone al massimo le potenzialità: questione di pneumatici, di aerodinamica, di assetto. Le monoposto (oggi della IRL, la Indianapolis Racing League) vi hanno corso nel 2013 per la 97° volta; le stock tentano di intaccare la popolarità della Daytona 500 disputando a Indianapolis la Brickyard 400 dal 1994. Ci riescono con la naturalezza di un'attempata casalinga che, acquistata una parrucca da vamp per corrispondenza, ammicca allo specchio sentendosi Marilyn Monroe.
Stars and stripes only
Se sdoganare il mito di una pista unica, legata a filo doppio a un evento che più a stelle e strisce non si può, risulta problematico per una categoria – le stock car – la cui popolarità negli Stati Uniti è sempre stata elevatissima, figuriamoci per qualcosa di alieno come la Formula 1 o la MotoGP. La prima è transitata su una pista che, con l'originale, ha in comune la sola curva 1 e parte del rettilineo finale che parte dalla curva 4: si gira in senso antiorario, lo si è fatto dal 2000 al 2007 senza un particolare entusiasmo da parte del pubblico. E, anzi, con uno spettacolo ai limiti della farsa, quando nel 2005 si presentarono al via le sole monoposto gommate Bridgestone: sei in tutto, arrivate al traguardo sotto bordate di fischi. Le altre, gommate Michelin, non parteciparono dopo un terrificante botto di Schumacher jr. nella curva 1 a causa di uno stallonamento dello pneumatico posteriore. Gli americani non si esaltano facilmente di fronte a sport europei, è cosa nota, e – di fronte a spettacoli non all'altezza – non esitano a fischiare. Fino a fare calare il sipario.
MotoGP, bella ma...
Le MotoGP sono approdate, con una certa diffidenza, a Indianapolis nel 2008. Il battesimo è stato di quelli bagnati, anzi ventosi: fu l'Uragano Ike a consegnare a Valentino Rossi una vittoria con gara interrotta, mentre 250 e 125 non scesero in pista per le condizioni climatiche sfavorevoli. Da allora, gare svolte regolarmente (ma sul tracciato della Formula 1...), risposta del pubblico tiepida – 170.000 biglietti staccati in tre giorni nel 2008 il record: tanti in assoluto, pochi per un impianto che ne contiene più del doppio in una singola seduta – e nel 2012 il sorpasso in termini di spettatori da parte di Laguna Seca, che rispetto a Indianapolis è una struttura mignon (137.000 contro 134.000 in tre giorni). Se nel 2013 i risultati dovessero mantenersi su questa falsariga, ci sarebbe da pensare a un classico grazie e arrivederci. A un amore non sbocciato, e sarebbe stato strano se fosse successo, tra pubblico e MotoGP. Mettiamola così: gli eroi del Motomondiale, tutto sommato, potrebbero stare meglio – ed essere meglio celebrati – altrove. Perché considerare Indy come una pista qualsiasi equivale a entrare a Notre Dame e scambiarla per una chiesetta di paese.
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