Smog, l’allevamento intensivo inquina più delle moto
In questi giorni in cui si cercano eventuali correlazioni tra la diffusione del Coronavirus e l’inquinamento atmosferico, emerge con forza un dato tristemente noto: gli allevamenti intensivi e gli impianti di riscaldamento inquinano molto di più del trasporto stradale
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Sono altre, le cause...
Lo sapevamo già, ma in queste settimane funestate dall’epidemia di coronavirus, il dato è tornato prepotentemente di interesse pubblico. A fare la parte del leone nell’inquinamento atmosferico sono gli allevamenti intensivi e i sistemi di riscaldamento che, uniti (17% e 37%), equivalgono a circa quattro volte l’inquinamento emesso dal trasporto stradale (14%). Un dato che fa discutere, soprattutto oggi visto che l’inquinamento sembra avere un ruolo importante nella velocità di diffusione del virus. Il particolato presente nell’atmosfera, infatti, potendo provocare infezioni e malattie respiratorie è un fattore di rischio concreto in casi di pandemia e non è un caso che Lombardia e Emilia Romagna, cioè le regioni più inquinate (e produttive) d’Italia, siano tra le zone più colpite dal virus. Generalmente, però, quando i livelli di inquinamento si alzano, sono auto e moto a venire messe sotto accusa, le normative in questo senso si sono sprecate, così come le giornate con circolazione bloccata per far riportare i livelli di particolato sotto la norma. Resta un dato di fatto che l’impatto dei trasporti incide in misura drasticamente minore rispetto ai vari sistemi di riscaldamento e all’allevamento intensivo, settori in cui normative antinquinamento e disposizioni latitano da anni. Non è un caso, infatti, che negli ultimi 30 anni l’inquinamento da trasporto è calato di 6 punti percentuali (grazie anche alle varie normative), così come il settore della produzione di energia, crollato dall’80% del 1990 fino al 3% attuale, grazie all'introduzione di standard di emissioni più restrittivi. Per contro, invece, gli allevamenti hanno invece visto salire la propria impronta sulle polveri sottili dal 7% del 1990 al 17% di due anni fa, così come il riscaldamento residenziale e commerciale, che ha avuto un balzo di poco più del 10 all’attuale 37%. Le soluzioni, almeno secondo Greenpeace ci sarebbero: basterebbe superare l’utilizzo di combustibile di legno, tornato di moda con la diffusione di caminetti e stufe a pellet e, per quanto riguarda l’allevamento, provvedere alla copertura delle vasche delle deiezioni, misura che da sola abbatterebbe, e di molto, le emissioni di ammoniaca. Insomma, si parla sempre di normative antinquinamento relative a auto e moto, ma per respirare aria più pulita bisognerebbe puntare il dito su altri settori…
Lo sapevamo già, ma in queste settimane funestate dall’epidemia di coronavirus, il dato è tornato prepotentemente di interesse pubblico. A fare la parte del leone nell’inquinamento atmosferico sono gli allevamenti intensivi e i sistemi di riscaldamento che, uniti (17% e 37%), equivalgono a circa quattro volte l’inquinamento emesso dal trasporto stradale (14%). Un dato che fa discutere, soprattutto oggi visto che l’inquinamento sembra avere un ruolo importante nella velocità di diffusione del virus. Il particolato presente nell’atmosfera, infatti, potendo provocare infezioni e malattie respiratorie è un fattore di rischio concreto in casi di pandemia e non è un caso che Lombardia e Emilia Romagna, cioè le regioni più inquinate (e produttive) d’Italia, siano tra le zone più colpite dal virus. Generalmente, però, quando i livelli di inquinamento si alzano, sono auto e moto a venire messe sotto accusa, le normative in questo senso si sono sprecate, così come le giornate con circolazione bloccata per far riportare i livelli di particolato sotto la norma. Resta un dato di fatto che l’impatto dei trasporti incide in misura drasticamente minore rispetto ai vari sistemi di riscaldamento e all’allevamento intensivo, settori in cui normative antinquinamento e disposizioni latitano da anni. Non è un caso, infatti, che negli ultimi 30 anni l’inquinamento da trasporto è calato di 6 punti percentuali (grazie anche alle varie normative), così come il settore della produzione di energia, crollato dall’80% del 1990 fino al 3% attuale, grazie all'introduzione di standard di emissioni più restrittivi. Per contro, invece, gli allevamenti hanno invece visto salire la propria impronta sulle polveri sottili dal 7% del 1990 al 17% di due anni fa, così come il riscaldamento residenziale e commerciale, che ha avuto un balzo di poco più del 10 all’attuale 37%. Le soluzioni, almeno secondo Greenpeace ci sarebbero: basterebbe superare l’utilizzo di combustibile di legno, tornato di moda con la diffusione di caminetti e stufe a pellet e, per quanto riguarda l’allevamento, provvedere alla copertura delle vasche delle deiezioni, misura che da sola abbatterebbe, e di molto, le emissioni di ammoniaca. Insomma, si parla sempre di normative antinquinamento relative a auto e moto, ma per respirare aria più pulita bisognerebbe puntare il dito su altri settori…
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