Parcheggia l’auto davanti al cancello impedendo l’uscita di una moto: non scatta la “violenza privata”
Non scatta il reato di violenza privata per colui che abbia parcheggiato l'automobile davanti a un cancello impedendo, in tal modo, ad un centauro, l'uscita con la motocicletta. Lo ha stabilito la Cassazione che, annullando la sentenza di condanna a carico dell’automobilista, lo ha rinviato ad un nuovo giudizio. Il nuovo giudice dovrà stabilire per quale “intendimento” abbia impedito alla moto di passare.
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Anche le più banali regole di comportamento tra utenti della strada diventano bersaglio di interpretazioni distorte e bizzarre che, oltretutto, vengono spesso condivise ed approvate nelle aule di giustizia. Le norme che regolamentano il contegno, infatti, non si leggono soltanto sul codice penale o della strada, ma dovrebbero essere dettate anche dal senso civico e dal buon senso che, talvolta, viene a mancare proprio tra i conducenti dei mezzi. Un episodio frutto di un insano malcostume, o della ripicca, o forse della provocazione. Saranno i nuovi giudici a stabilirlo, dopo il rinvio sentenziato nel terzo grado di giudizio. In particolare, nel 2014, il magistrato di secondo grado aveva confermato la sentenza con cui un uomo era stato condannato per il reato di violenza privata, in quanto, attraverso la violenza, consistita nel parcheggiare la propria vettura davanti ad un cancello sulla sua proprietà, dove tuttavia anche altri dimoranti vantavano il diritto di transitare, impediva ogni forma di passaggio costringendo un centauro a rimanere sul posto in attesa che spostassero la suddetta autovettura per uscire con la propria motocicletta. Per i giudici della Corte d’appello l’imputato aveva impedito al motociclista non l'entrata nel suo fondo, a bordo della sua motocicletta, ma l'uscita. Detta ricostruzione dei fatti è stata tuttavia smentita dalla Cassazione (Corte di Cassazione, Sezione 5 penale, Sentenza 31 maggio 2016, n. 23047), ritenendo che lo stesso automobilista, attraverso il descritto comportamento, aveva impedito non l'uscita ma "l'ingresso" nel proprio fondo. I primi giudici avevano inoltre ritenuto che l’uomo aveva agito per meri scopi di dispetto e disturbo, e non si era attivato nel rimuovere l’autoveicolo dal passaggio, anche dopo che il motociclista gli aveva ricolto una specifica richiesta. La Cassazione ha quindi annullato la sentenza con cui l’automobilista era stato condannato per il delitto di violenza privata, rinviando il caso alla Corte d'Appello di Trieste che dovrà effettuare un nuovo esame: in particolare dovrà ricostruire le circostanze di tempo e di luogo idonee a consentire di individuare “l'intendimento” dell'imputato nel momento in cui ha posto in essere la condotta, in altre parole dovrà indagare sul motivo per cui ha impedito il passaggio del motociclista.
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