Berham Customs Harris-Suzuki GSX1100, la piuma che ha vinto a Glemseck
Più passano gli anni, più l’evento che si corre sull’ex circuito del Solitude vicino a Stoccarda si sta trasformando in un’epica battaglia a suon di moto pesantemente modificate. Il Glemseck 101 è diventato una questione seria per capire chi ha la moto da sparo più veloce. Alla faccia della presenza sul campo di team quasi ufficiali, quest’anno la più veloce è stata una vecchia Suzuki dotata di un prezioso telaio
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Fuoriserie
Uno sparo anni Ottanta
Quando noti che a correre l’ottavo di miglio c’è gente del calibro di King Carl Fogarty, Maria Costello o Conor Cummins, intuisci che Glemseck 101 non è più solo una bella reunion di cafè racer ma una vera e propria gara tra professionisti. E tutto ciò senza buttar troppo l’occhio all’altro aspetto della competizione, le cavalcature che si presentano sulla linea del via: motori pompati, a volte turbocompressi, ciclistiche degne di una superbike e via dicendo. Il meeting tenutosi a Leonberg dal 2 al 4 Settembre è stato questo, tanta roba e che vinca il migliore.
Il format della International Sprint Race è semplice: sedici moto che si sfidano a eliminazione diretta con spari uno contro uno sull’ottavo di miglio. Negli ultimi due tornei una Suzuki preparata è sempre arrivata in finale, l’arcinota The Tzar di Sylvain Berneron che ha ottenuto un primo posto nel 2014 e un secondo nel 2015: quest’anno la finale è stata ancora un derby tra motociclette di Hamamatsu, tra “l’ufficialissima” Fat Mile, un Bandit 1250 di Suzuki Deutschland e la gloriosa GSX1100 di Berham Customs con telaio Harris. Contro ogni pronostico la vecchietta dal telaio artigianale è stata la prima a presentarsi al traguardo, portandosi a casa il bottino grosso.
Fortuna? Caso? Niente di tutto ciò: la creatura berlinese aveva tutte le carte in regola per bastonare chiunque: un mitico motore raffreddato ad aria/olio super affidabile, ciclistica sopraffina e peso da piuma.
La scheletrica silhouette della giapponese alla bilancia segnava 168 chilogrammi grazie appunto al telaio dello specialista inglese, un Magnum 2 del 1984 riadattato, e a un nuovo forcellone posteriore KRT. Come si evince dalle foto, specchi, carene, fanali e tutto ciò che non serviva è stato tolto: il pilota è seduto su uno strapuntino che fodera del metallo vivo e abbraccia una struttura in acciaio che avvolge il propulsore, una motocicletta ai minimi termini in pratica. Basta abbassare lo sguardo per trovarsi a tu per tu coi cornetti di aspirazione della batteria di quattro carburatori Mikuni TMR 36-D9; il serbatoio infatti è stato rimpiazzato da un “contenitore” artigianale per la benzina del risibile volume di 1,5 litri, sempre per la solfa della cura dimagrante.
Non ci sono nemmeno gli ammortizzatori posteriori, il retrotreno è infatti rigido mentre all’anteriore la forcella originale è stata sostituita da quella di una GSX-R 750 del 1984.
Da altre Suzuki sono stati cannibalizzati i principali componenti dell’impianto frenante: le pinze sono di una RG80 e di una GSX750F, le pompe freno di una YZR600 e di una DR125, persino la frizione è di una parente, una SV.
I cerchi, anche loro vintage anni Ottanta, provengono da una Honda Bol d’Or e calzano delle coperture Continental con uno striminzito pneumatico da 130 al posteriore.
Fatti in casa invece i supporti per le pedane, il contenitore della batteria, le tabelle e le flange per i dischi freno anteriori.
Il ringhio è opera di Schüle Classic Racing, e il rumore di quel 4 in 2 in 1 se lo ricorderanno in parecchi quest’inverno mentre in garage progettano il proprio mostro da sparo per vincere alla Sprint Race di Glemseck 101 nel 2017.
Quando noti che a correre l’ottavo di miglio c’è gente del calibro di King Carl Fogarty, Maria Costello o Conor Cummins, intuisci che Glemseck 101 non è più solo una bella reunion di cafè racer ma una vera e propria gara tra professionisti. E tutto ciò senza buttar troppo l’occhio all’altro aspetto della competizione, le cavalcature che si presentano sulla linea del via: motori pompati, a volte turbocompressi, ciclistiche degne di una superbike e via dicendo. Il meeting tenutosi a Leonberg dal 2 al 4 Settembre è stato questo, tanta roba e che vinca il migliore.
Il format della International Sprint Race è semplice: sedici moto che si sfidano a eliminazione diretta con spari uno contro uno sull’ottavo di miglio. Negli ultimi due tornei una Suzuki preparata è sempre arrivata in finale, l’arcinota The Tzar di Sylvain Berneron che ha ottenuto un primo posto nel 2014 e un secondo nel 2015: quest’anno la finale è stata ancora un derby tra motociclette di Hamamatsu, tra “l’ufficialissima” Fat Mile, un Bandit 1250 di Suzuki Deutschland e la gloriosa GSX1100 di Berham Customs con telaio Harris. Contro ogni pronostico la vecchietta dal telaio artigianale è stata la prima a presentarsi al traguardo, portandosi a casa il bottino grosso.
Fortuna? Caso? Niente di tutto ciò: la creatura berlinese aveva tutte le carte in regola per bastonare chiunque: un mitico motore raffreddato ad aria/olio super affidabile, ciclistica sopraffina e peso da piuma.
La scheletrica silhouette della giapponese alla bilancia segnava 168 chilogrammi grazie appunto al telaio dello specialista inglese, un Magnum 2 del 1984 riadattato, e a un nuovo forcellone posteriore KRT. Come si evince dalle foto, specchi, carene, fanali e tutto ciò che non serviva è stato tolto: il pilota è seduto su uno strapuntino che fodera del metallo vivo e abbraccia una struttura in acciaio che avvolge il propulsore, una motocicletta ai minimi termini in pratica. Basta abbassare lo sguardo per trovarsi a tu per tu coi cornetti di aspirazione della batteria di quattro carburatori Mikuni TMR 36-D9; il serbatoio infatti è stato rimpiazzato da un “contenitore” artigianale per la benzina del risibile volume di 1,5 litri, sempre per la solfa della cura dimagrante.
Non ci sono nemmeno gli ammortizzatori posteriori, il retrotreno è infatti rigido mentre all’anteriore la forcella originale è stata sostituita da quella di una GSX-R 750 del 1984.
Da altre Suzuki sono stati cannibalizzati i principali componenti dell’impianto frenante: le pinze sono di una RG80 e di una GSX750F, le pompe freno di una YZR600 e di una DR125, persino la frizione è di una parente, una SV.
I cerchi, anche loro vintage anni Ottanta, provengono da una Honda Bol d’Or e calzano delle coperture Continental con uno striminzito pneumatico da 130 al posteriore.
Fatti in casa invece i supporti per le pedane, il contenitore della batteria, le tabelle e le flange per i dischi freno anteriori.
Il ringhio è opera di Schüle Classic Racing, e il rumore di quel 4 in 2 in 1 se lo ricorderanno in parecchi quest’inverno mentre in garage progettano il proprio mostro da sparo per vincere alla Sprint Race di Glemseck 101 nel 2017.
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