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Bimota Tesi 1D, l’unicorno delle sospensioni

Quarant’anni fa la casa riminese presentò questo innovativo prototipo, frutto della tesi di due brillanti neo-ingegneri italiani. Ecco la sua storia

Non si trattò  “solamente” di uno schema innovativo e mai concepito a quel modo, che integrando il sistema di sterzo al mozzo svincola (per la prima volta) questa funzione da quella ammortizzante. Si trattò di una moto completa, un prototipo già avanzato che inevitabilmente calamitò su di sé infinite attenzioni. Il suo nome, Bimota Tesi, è ben noto. Non un riferimento qualsiasi, perché la paternità del “sistema Bimota” deriva precisamente da un lavoro di tesi, presentato all’Alma Mater Studiorum di Bologna da due giovani ingegneri: Pierluigi Marconi e Roberto Ugolini. Il progetto Tesi fu dunque un’ottimo trampolino per i talentuosi laureandi e un promettente biglietto da visita per la Casa riminese, che all’epoca stava attraversando un periodo travagliato, con l’avvicendamento tra Martini e Tamburini (il primo subentrato al secondo). Il prototipo Tesi però, equipaggiato con motore Honda VF 400 F e telaio in fibra di carbonio e caratterizzato da un design non convenzionale, si rivelò talmente “avanti” da generare un contraccolpo immediato sulle vendite dei modelli esistenti, appartenenti a una precedente generazione (o percepiti come tali). Il progetto era invece in fase embrionale e l’azzardo trascinò Bimota, pur non come unica causa, nella sua fase di amministrazione controllata (1984).

 

Una lunga gestazione

Grazie al ciclo inaugurato con la nuova DB1, concepita da Federico Martini, tra il 1985 e il 1989 Bimota si risollevò sul fronte delle vendite. Fu invece sul versante delle corse, che si concentrò lo sviluppo del sistema DSC e della futura/futuristica Tesi. A partire dal 1984 un nuovo prototipo motorizzato Honda VF 750 F viene predisposto per effettuare due gare-test del Mondiale Endurance. Esperienza decisiva per stabilire l’abbandono dell’idraulica nel DSC in favore di un più gestibile sistema a rinvii meccanici. È il 1987 e questa volta il propulsore che muove la Tesi è quello della Yamaha 750 FZ. Solo con l’anno successivo Bimota “guarda in casa”, al bicilindrico Ducati 851, congeniale alla tipologia di telaio con cui è pensata la moto. Ancora due anni di sviluppo, sette dalla presentazione del primo concept, e con il 1990 arriva al Salone di Colonia anche la Bimota Tesi 1D. Una moto rivoluzionaria, tecnologicamente innovativa e al contempo artigianale. Nella sua prima configurazione, sempre spinta dal 851 di Borgo Panigale, la Tesi 1D era capace di erogare 102 cv per muovere 190 Kg scarsi. Con la seconda configurazione, aumentò la cilindrata di 55 cc e i cavalli passarono a quota 112.

Nascita e rinascita

Da quel Salone di Colonia sono trascorsi altri 33 anni. Nel mezzo, le vicissitudini di una piccola Casa motociclistica che ha saputo farsi spazio, stupire, fallire, tornare sul mercato, cambiare pelle numerose volte. Con una sola costante: offrire motociclette di nicchia, mezzi speciali, roba da amanti sanguigni delle due ruote. Di certo però, la Tesi rappresenta l’impronta più profonda, lasciata dalla Casa romagnola nel panorama motociclistico. Non si trattò di un semplice vezzo per distinguersi dagli altri produttori, ma di un pacchetto tanto complesso da replicare quanto efficace sul lato pratico, che messo ben a punto restituisce un’incredibile precisione di guida.

Per vedere oggi da vicino i prototipi numero 1, numero 3 e numero 4 della Bimota Tesi, è necessario visitare il Museo Nazionale del Motociclo di Rimini. Ne vale la pena!          

 

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